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OLTRE L’ABISSO DI UN LIBRO MERAVIGLIOSO

Si avvicinava la ricorrenza di Lughnasadh: quattro piccole tribù celtiche situate tra le colline avevano deciso di riunirsi per l’occasione. Scelsero un luogo che le accomunasse in quanto parte dei loro confini e che, per la sua grande energia, si rivelasse propizio all’incontro e alle celebrazioni. Si trattava di uno spiazzo erboso a picco sull’acqua, un panorama speciale per quelle zone; nei lunghi tramonti estivi faceva sentire vicini agli Dei. Questi, anche quell’anno, dal cielo benedirono le famiglie con un raccolto abbondante.

Tutti erano in vena di festa, sia per l’importante celebrazione che per l’inaspettato spirito di comunità imperante tra i clan, molto diversi tra loro e, in tante situazioni, anche rivali. Per questo la decisione di spartirsi il territorio aveva creato incertezze e titubanza – inizialmente proprio per la riottosità di alcuni – inconciliabile con l’ascetica spiritualità di altri.

Non sarebbe stato facile, ma fino a quel momento tutti stavano accampandosi con semplici tende nel vasto altopiano: le tribù restavano ordinatamente disposte ognuna presso il proprio capoclan, a discreta distanza dalle altre famiglie.
Tutti erano trepidanti per il giorno successivo, in particolare i bambini, ansiosi di poter ammirare alcuni personaggi già presenti nelle leggende che venivano narrate loro prima di dormire.

Il mio ceppo era costituito da persone bonarie e serene, dedite ai festeggiamenti e al consumo di bevande inebrianti. Eravamo molto coesi e vivevamo nella pace più assoluta. Le regole erano poche, raramente venivano sollevati conflitti e punizioni per argomenti religiosi o filosofici. Regnava il rispetto per i giusti e per coloro che con il proprio lavoro sopperissero all’incapacità di altri.
Era una vita come quella degli alberi, semplice, armoniosa e vera.

...E io venivo amata per questo.

Garantire il loro benessere era diventata la ragione della mia esistenza. Mio fratello abbandonò la famiglia alla ricerca di sé stesso e del proprio valore. Quando i miei genitori vennero a mancare il popolo si affidò a me, ancora inesperta ma dal carattere forte e determinato per sostenere una simile carica. Loro erano per me come figli, la mia più grande passione; cercavo in tutti i modi di soddisfarli, arrivando forse a viziarli.

...Io ero la capoclan.
Gli Dei sostennero il mio comando, garantendoci anni di duratura prosperità. In quel clima sviluppammo con grande impegno le nostre attività, tanto da lasciare solo una piccola e superficiale fetta di attenzione per quelle Entità che tanto ci stavano amando.
Io seguivo le regole della mia educazione, pregando nella solitudine del mio cuore. Non vedevo un senso nel forzare persone a inchinarsi a un dio senza la giusta propensione. Fu così che, liberati da tutti i piccoli rituali, la tribù iniziò a osservare le festività esclusivamente come momenti ricreativi e non privi di piccoli eccessi.
...E gli Dei giustamente chiesero pegno.

Lo chiesero a me, che ero responsabile della deriva del mio popolo e anche deturpata da una indelebile macchia: non aver contratto matrimonio, vivendo nel peccato insieme a un uomo: Makena. Un uomo splendido, un singolarissimo capo dell’esercito. Veniva da una famiglia solida ed era amato e rispettato da tutti per il suo valore, per l’alto senso di giustizia e per un rarissimo pragmatismo quasi ingegneristico. Quest’ultimo aveva permesso alle nostre produzioni agricole di migliorare in quantità e qualità rispetto a quelle dei nostri vicini, minimizzando la fatica e gli sforzi.

Makena non era una persona dal carattere autoritario, ma era pronto a sacrificare tutto ciò che aveva per coloro che amava. Non conosceva paura né prepotenza e nemmeno violenza fine a sé stessa. Il nostro amore era naturale e pieno di gioia, il tempo trascorso insieme sempre prezioso, come anche il sostegno reciproco. Lui era il mio uomo e io la sua donna… e avrebbe dovuto essere così per sempre. La nostra relazione non era stata il frutto di una consapevole decisione. Ci conoscevamo e frequentavamo fin da bambini ed era naturale agli occhi di tutti che un giorno saremmo stati sposi.

Ero molto giovane quando l’inaspettata dipartita dei miei genitori mi portò al comando. Ero impreparata e indebolita da un intenso dolore e lui mi offrì un solido sostegno. Ogni giorno era al mio fianco, permettendomi di maturare nel mio ruolo senza incorrere in sconsideratezze, rese ancora più probabili dall’animo prostrato. Gradualmente la sua costante presenza nella mia casa finì per protrarsi anche alle notti, trasformando il nostro rapporto in una convivenza vera e propria; e io, intimamente, auspicavo anche una famiglia.

Ero certa che avremmo celebrato il matrimonio in un futuro non troppo lontano ma, nonostante fossero passati quasi due anni, sentivo il lutto ancora vicino per pensare di convolare a nozze e festeggiare. Makena, d’altro canto, ripeteva di non avvertire il bisogno d’altro. Lui non era il tipo di persona legato alla spiritualità e non vedeva motivi né priorità per ufficializzare il nostro stato, specie in quel momento in cui stava insegnando alla popolazione molte migliorie alle metodologie di raccolta e semina. Non aveva certo tempo per il folklore.

Ma gli dei chiesero pegno.

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